La Colomba

10/09/2024
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Legge Aannabella Calabrese



La colomba (Campania)

(da LO CUNTO DE LI CUNTI di Giambattista Basile)

 

Chi nasce principe, non deve fare cose da lazzaro, l’uomo autorevole non deve dare cattivo esempio agli umili, perché Dall’asino più grande impara a mangiare la paglia il più piccolo. Altrimenti, non ci si deve meravigliare se poi il Cielo manda un sacco di travagli, come accadde a un principe che, comportandosi da villano, offese una povera vecchia e fu sul punto di perdere in malo modo la vita. C’era una volta, a otto miglia da Napoli, verso gli Astroni, un bosco di fichi e di pioppi, così fitto che i raggi del Sole non riuscivano ad attraversarlo. Dentro questo bosco c’era una casupola mezzo diroccata, dove abitava una vecchia, tanto priva di denti quanto carica d’anni, tanto alta di gobba quanto bassa di fortuna. Aveva cento rughe in faccia, ma la borsa completamente vuota, aveva la testa tutta argento, ma non possedeva neppure un centesimo di rame per poter sopravvivere. Era costretta ad andare per i fienili dei dintorni elemosinando qualcosa per tirare avanti. Purtroppo, poiché ai tempi d’oggi si dà più facilmente una borsa di monete a uno spione ingordo che una monetina a un povero bisognoso, la misera vecchia dovette stentare per tutto il tempo della trebbiatura per riuscire a mettere insieme una scodella di fagioli, in una stagione in cui c’era stata tanta abbondanza che in poche case non se ne conservavano sacchi pieni. La povera vecchia, portati a casa quei pochi fagioli, li pulì, li versò in una pignatta che mise sul davanzale della finestra ed uscì di nuovo per cercare qualche legnetto nel bosco per poterli cuocere. Ma poiché Sono le caldaie vecchie ad essere danneggiate dalla ruggine, Ai cavalli magri Dio manda le mosche e Sono gli alberi caduti ad essere tagliati in pezzi, successe che in quel frattempo passò di lì il figlio del re, di nome Nardaniello, che andava a caccia. Egli, vista la pignatta sulla finestra, volendola colpire, cominciò a gareggiare con quelli del suo séguito a chi, mirando meglio, riuscisse a prenderla giusto nel mezzo con un sasso. Per compiacerlo, tutti cominciarono a bersagliare quella pentola innocente e il principe, dopo tre o quattro sassate, la colse riducendola in frantumi. Quando già tutti se ne erano andati, tornò la vecchia che, trovando quell’amaro disastro, fuori di sé per la rabbia, cominciò a sbraitare gridando male parole e brutte bestemmie: «Di che si voleva vantare quel caprone che ha voluto colpire con le sue corna questa pignatta, quel figlio di malafemmina che è riuscito a rompere anche la fossa che ha partorito le sue membra, quel villano zoticone che ha seminato contro stagione i miei fagioli? Non ha avuto una goccia di compassione per le miserie mie ma, almeno, avrebbe dovuto avere rispetto di se stesso e non rischiare di compromettere l’onore della sua casata con questa cattiva azione, visto che si dice che da fagioli sprecati ne nascono corna. Ma ora io prego il Cielo, in ginocchio e con tutto il cuore, che costui si possa innamorare della figlia di un’orca in grado di farlo bollire e cuocere a fuoco lento, e che la suocera lo vessi a tal punto da dover temere per la sua vita! Che egli possa essere così legato dalle bellezze della figlia e dagli incanti della madre da non poter fuggire e da dover restare con loro anche a costo di crepare! Dovrà essere soggetto alle prepotenze di quella brutta arpia dell’orca, che lo comanderà a bacchetta e gli elargirà il pane con tanta parsimonia che, più d’una volta, debba desiderare i fagioli miei che ha sparsi per terra». Le maledizioni di questa vecchia misero le ali e subito salirono in Cielo e, nonostante si dica che le bestemmie delle donne non colgono e che Al cavallo bestemmiato il pelo diventa più bello, le bestemmie della vecchia colpirono tanto il principe, che egli stette quasi per lasciarci la pelle. Infatti, non passarono più di due ore, che egli, smarritosi nel bosco, lontano dalle genti sue, incontrò una bellissima giovane che andava raccogliendo lumache e, per diletto, cantava: «Esci, esci corna, che mamma tua ti scorna! Ti scorna sopra al lastrico per fare il figlio mascolo!». Il principe, quando si vide innanzi questo scrigno delle cose più preziose della natura, questo banco con i più ricchi depositi del Cielo, questo arsenale delle più possenti forze d’Amore, si sentì quasi di svenire. I raggi degli occhi di quella perfetta faccia di cristallo, come un’esca, catturarono il suo cuore, che si accese come una fornace dove cuocevano i mattoni per costruire la casa della speranza sua. Neppure Filadoro, tale era il nome di quella giovane, perse tempo poiché il principe era un bel pezzo di giovane e la sua vista le trafisse da parte a parte il cuore. Innamoratisi l’uno dell’altra, con gli occhi cominciarono a chiedersi amore e, anche se con le loro lingue non parlavano, gli sguardi erano trombe di banditore che manifestavano i segreti della loro anima. Per un bel po’ entrambi rimasero senza riuscire a pronunciare una sola parola, ma poi il principe fece uscire la voce dalla gola e prese a dire: «Da quale prato è germogliato questo fiore di bellezza? Da quale cielo è piovuta questa rugiada di grazia? Oh boschi e selve felici, voi siete fortunati perché essendo abitati da questa meraviglia, i vostri alberi non possono essere tagliati per fare manici per le scope, traverse per le forche o coperchi di vasi da notte, ma solo per le porte per il tempio della bellezza, per le travi per la casa delle Grazie e per le aste per le frecce d’Amore!». «Moderate le lodi, cavaliere mio!–rispose Filadoro;–Non fatemi tanti complimenti perché sono le vostre virtù e non i meriti miei a farvi formulare queste lodi. Io sono una donna che conosce i suoi limiti e da sola so valutare la differenza tra voi e me. Comunque, che io sia bella o brutta, nera o bianca, magra o grassa, snella o pesante, cernia o fata, bambolina o ranocchia, sono tutta al comando vostro. Voi, essendo un bel pezzo d’uomo, mi avete tagliato a fette il cuore e con la vostra bella faccia nobile mi avete trapassato da una parte all’altra, perciò voglio essere la vostra schiava e incatenarmi a voi ora e per sempre». Queste non furono parole ma squilli di tromba che, come un «Tutti a tavola!», invitarono il principe alla tavola dei piaceri amorosi, anzi come un «Tutti a cavallo!» lo chiamarono alla battaglia dell’amore. Egli, vedendosi offerto un dito di amorevolezza, le prese tutta la mano e baciò così l’amo d’avorio che gli aveva catturato il cuore. Filadoro, a questa cerimonia del principe, fece un viso da tavolozza di pittore, perché sulla sua faccia comparve un miscuglio di rosso per la vergogna, di vinaccia per la paura, di verde per la speranza e di cremisi per il desiderio. Nardaniello avrebbe voluto continuare con questo passatempo ma, dato che in questa infelice vita umana, non c’è vino di piacere senza un fondo di disgusto, il dolce gli fu tolto dalla bocca. Infatti, mentre egli stava nel momento migliore dell’incontro, ecco arrivare improvvisamente la mamma di Filadoro, che era un’orca così brutta che la natura l’aveva fatta come modello delle mostruosità. Aveva i capelli come una scopa di saggina per annerire e affumicare i cuori; la fronte era di pietra abrasiva per affilare il coltello della paura; i suoi occhi provocavano tremiti alle gambe, vermi per il terrore, e diarree di corpo; la sua vista portava il terrore nella faccia, lo spavento nello sguardo, lo schianto nei passi; la sua bocca aveva le zanne come quella del porco, era storta come di chi patisce la convulsione e bavosa come quella di una mula. Insomma era tutta un distillato di bruttezza, un ospedale di storpiature. Certo, il principe doveva avere qualcosa che lo proteggeva se riuscì a non svenire a questa vista. L’orca lo agguantò per il farsetto, e gli disse: «Fermati subito!», e il principe rispose: «Attenta a te, indietro, canaglia!», e avrebbe voluto metter mano alla spada che era di ottima lama, ma restò bloccato senza potersi né muovere né fiatare e, come un ciuco preso alla cavezza, fu trascinato a casa dell’orca. Appena arrivati, l’orca lo ammonì dicendo: «Cerca di faticare come un cane, se non vuoi morire come un porco. Come primo servizio, zappa e semina tutto questo moggio di terra che è in piano con questa camera, e fai in modo da aver finito per la fine di questa giornata perché, stai attento, che se per quando torno stasera non trovo finito il lavoro, io ti mangio!». E detto alla figlia di rigovernare la casa, se ne andò a un appuntamento che aveva con le altre orche del bosco. Nardaniello, vedendosi ridotto in questa condizione, cominciò a bagnarsi il petto con torrenti di lacrime, maledicendo la sua fortuna che l’aveva trascinato in questa brutta situazione. Ma Filadoro lo confortò esortandolo a stare di buon animo, perché lei era disposta a dare anche il suo sangue per aiutarlo. Però lo rimproverò anche perché, mostrandosi così disperato per quanto era accaduto e, ritenendo cattiva la sorte che l’aveva condotto in quella casa, dove era così svisceratamente amato da lei, dimostrava di ricambiare poco il suo amore. Il principe le rispose: «Non mi dispiace di essere sceso dal cavallo all’asino, né d’aver cambiato il palazzo reale con questo tugurio, i banchetti reali con un tozzo di pane, lo scettro con la zappa, perché mi sentirei fortunato di queste mie disgrazie, solo se, essendo tu qui, potessi saziarmi di guardarti con questi occhi. Quello che mi trafigge il cuore è che devo zappare e sputarmi cento volte nelle mani, e ciò che è peggio è che debbo fare in una giornata, un lavoro per il quale non basterebbe un paio di buoi per completarlo e, se non finisco in tempo, sarò mangiato da tua madre. Io non soffrirò tanto per dover abbandonare il mio corpo, quanto perché dovrò lasciare la tua bella persona!», e parlando così piangeva a singhiozzi, lasciando scorrere secchi di lacrime. Filadoro gli asciugò gli occhi e gli disse: «Non credere, vita mia, che tu debba lavorare altro campo che l’orto del nostro amore, né devi temere che mamma mia possa torcerti un solo pelo della tua persona. Tu hai Filadoro e non aver paura perché, se non lo sai, io sono fatata e posso, in un momento, far lievitare l’acqua e oscurare il sole. Perciò, stiamo allegri, che questa sera il terreno si troverà zappato e seminato, senza che tu abbia dovuto muovere un solo dito». «Ma se tu, o bellezza del mondo, come dici, sei fatata, perché non scappiamo da questo paese? Perché io ti voglio far diventare regina, a casa di mio padre», replicò il principe. «Una congiunzione astrale sfavorevole mi impedisce di lasciare questa casa, ma presto il suo influsso passerà e potremo essere felici», gli spiegò Filadoro. Tra questi e mille altri dolci ragionamenti passò la giornata. Quando l’orca tornò dal bosco, chiamò dalla strada la figlia, gridando: «Filadoro, cala i capelli!» poiché, essendo la casa senza scale, essa saliva sempre per le trecce della figlia. Al sentire la voce della madre, Filadoro si sciolse i capelli e li calò, fornendo una scala d’oro a un cuore di ferro. Quella, appena arrivata, corse nell’orto e, trovatolo zappato e seminato, rimase meravigliata, sembrandole impossibile che un giovane così delicato avesse potuto fare quella fatica da cane. La mattina seguente, quando il Sole uscì per asciugarsi dell’umidità assorbita durante la notte, la vecchia, prima di scendere per andare nel bosco, ordinò a Nardaniello di farle trovare, per la sera stessa, le sette canne di legna che erano accatastate in uno stanzone, spaccate a quattro per pezzo, altrimenti lo avrebbe battuto come un pezzo di lardo e ne avrebbe fatto uno spezzatino per la cena serale. Il povero principe, sentito quest’ordine, era disperato, ma Filadoro, vedendolo impallidire, lo rimproverò dicendogli: «Pauroso che non sei altro! Benedetto uomo, tu ti spaventeresti pure dell’ombra tua!». «E ti pare cosa da niente–rispose Nardaniello–dover spaccare sette canne di legna, a quattro per pezzo, di qui a stasera? Ohimè, prima sarò io a spaccarmi in due metà, poi finirò nella gola di questa vecchia malvagia!». «Non temere–replicò Filadoro–perché, senza che tu debba fare alcuna fatica, la legna si troverà tutta bella e spaccata. Ora stai di buon umore e non rompermi l’anima con tanti lamenti!». Quando il Sole chiuse la bottega dei raggi suoi, la vecchia tornò a casa e, trovando spaccata tutta la legna, cominciò a sospettare che la figlia aiutasse il giovane. Il terzo giorno, come terza prova, ordinò a Nardaniello di ripulire, entro la sera, una cisterna da mille botti d’acqua, altrimenti lo avrebbe tagliato a pezzetti e fatto alla scapece. Partita la vecchia, Nardaniello ricominciò il solito lamento, e Filadoro, vedendo che le doglie incalzavano e che la vecchia era crudele nel voler caricare sempre di più il pover’uomo di guai e tribolazioni, gli disse: «Sta’ zitto perché, essendo passata l’avversa congiunzione astrale che legava i miei poteri magici, noi oggi, prima che il Sole dica Mi ritiro, noi diremo a questa casa Statti bene. Basta! Questa sera mamma mia troverà la casa vuota perché io me ne verrò con te, viva o morta». Il principe, sentendo questa notizia, mentre sembrava morto, respirò e, abbracciando Filadoro, le disse: «Anima mia, tu sei il vento favorevole per questa mia travagliata barca! Tu sei il puntello delle mie speranze!». Verso sera, i due innamorati, passando per un buco che Filadoro aveva scavato sotto l’orto, raggiunsero una grande galleria, attraverso la quale fuggirono, avviandosi verso Napoli. Giunti che furono alla grotta di Pozzuoli, Nardaniello disse a Filadoro: «Bene mio, non è decoroso farti entrare nel mio palazzo a piedi e vestita come ti trovi. Perciò, aspetta in questa osteria, che io torni con cavalli, carrozze, genti, vestiti e altri ammennicoli». Così, lasciata Filadoro, egli prese la via verso la città. Intanto l’orca, tornata dalla campagna e non rispondendo Filadoro alla solita chiamata, entrò in sospetto, e subito corse al bosco, tagliò una lunga pertica, l’appoggiò alla finestra della casa e, arrampicandosi come un gatto, salì in casa. Cercò dappertutto, dentro e fuori, su e giù, e non trovando nessuno, alla fine si accorse del buco. Visto che andava a sbucare in una piazza, si strappò i capelli e, bestemmiando la figlia e il principe, pregò il Cielo che, al primo bacio che l’innamorato avrebbe ricevuto da chiunque, lui si scordasse di lei. Ma lasciamo la vecchia a declamare queste preghiere di fattucchiera e torniamo al principe che, arrivando al palazzo dove lo ritenevano morto, scombussolò tutta la casa. Vedendolo, tutti gli corsero incontro gridando: «Alla buon’ora! Sii il benvenuto! Eccoti sano e salvo! Come ci sembra bello rivederti a casa!» e mille altre parole amorevoli. Mentre saliva lo scalone per raggiungere l’appartamento del re, a mezza scala incontrò la madre che lo abbracciò e lo baciò dicendogli: «Figlio mio, gioiello mio, pupilla degli occhi miei, dove sei stato? Come mai hai tardato tanto, facendoci preoccupare?». Il principe avrebbe dovuto raccontare le sue disgrazie ma non sapeva che cosa poter rispondere perché, non appena la madre l’aveva baciato, per effetto della maledizione dell’orca, gli era uscito dalla memoria tutto quanto gli era accaduto. Così, quando la regina, per impedirgli di continuare ad andare a caccia e di consumare la sua vita nei boschi, gli disse di volerlo ammogliare, egli rispose: «Facciamolo presto! Eccomi, sono pronto e preparato per fare tutto quello che vuole la mia signora mamma», per cui la regina ne fu molto contenta. Subito fu stabilito che dopo soli quattro giorni sarebbe stata condotta a palazzo la sposa. Era una signora di rango, venuta dalle Fiandre e capitata per caso in quella città e, per il matrimonio, sarebbe stata accolta con feste, luminarie e banchetti. Intanto Filadoro, rimasta all’osteria, vedendo che il marito tardava troppo a tornare e ronzandole all’orecchio, non so come, la voce di questa festa che si andava divulgando dappertutto, decise di recarsi a vedere quel che stava accadendo. Avendo visto che il garzone dell’oste, nel coricarsi la sera, aveva lasciato i suoi vestiti a piè del suo pagliericcio, li prese e al loro posto mise i suoi, poi, travestitasi da uomo, andò alla corte del re. Giuntavi, si presentò ai cuochi che in quei giorni avevano un gran da fare e abbisognavano di aiuti ed essi la presero come sguattero. La mattina dopo, al suono di ciaramelle e di pifferi, giunse la sposa. Apparecchiate le mense, tutti si misero a sedere e, mentre venivano portate le vivande più prelibate, il capocameriere tagliò una grossa torta ripiena che Filadoro aveva fatto con le sue mani e dalla torta volò una colomba così bella che tutti i convitati smisero di masticare, rimanendo attoniti ad ammirarne la bellezza. Volando, la colomba si avvicinò al principe e con una voce pietosa pietosa, gli disse: «O principe, hai mangiato forse cervello di gatto, che ti sei dimenticato così presto dell’amore di Filadoro? Sei così irriconoscente che così facilmente ti sono usciti di mente i servigi che lei ti ha resi? Sei così ingrato da ripagare in questo modo i benefici che ti ha fatto strappandoti dalle grinfie dell’orca e dandoti la vita e se stessa? Questo è la bella fortuna che rendi a quella sfortunata giovane per l’appassionato amore che t’ha dimostrato? Oh sventurata quella donna che si fida troppo delle parole degli uomini! Essi portano sempre, con le parole l’ingratitudine, coi benefici la irriconoscenza e con i debiti la dimenticanza! La sciagurata s’immaginava di impastare con te una bella ciambella e ora si trova a vedersela da sola; credeva di poter cantare con te andiamo, andiamo, e ora tu le dici fuggi, fuggi! Va’, non curarti di lei faccia tosta, meriti che ti colgano bene le bestemmie che ti manda di tutto cuore quella poveretta! Tu ti accorgerai cosa comporta burlare una fanciulla e infinocchiare una povera innocente! La portavi appesa al collo mentre lei ti portava nel cuore; te la mettevi sotto la coda, mentre lei ti metteva sopra la sua testa e, mentre lei ti aiutava, tu la ingannavi! Ma se il Cielo non s’è messo la benda sugli occhi, se gli dei non si son messi i tappi nelle orecchie, vedranno il torto che le hai fatto e, quando meno te lo aspetti, sarai ben punito! Basta, ora pensa a mangiare, soddisfa le tue voglie, sciala e godi con la tua novella sposa! Intanto, la misera Filadoro, filando il sottile filo della sua vita, lo romperà e ti lascerà libero di goderti la nuova moglie!». E dette queste parole, volò fuori della finestra, e se la prese il vento. Il principe, udito questo liscebusso colombesco, rimase interdetto per un po’, ma poi volle domandare da dove fosse venuta la torta ripiena e, saputo dal capocameriere che l’aveva lavorata uno sguattero di cucina avventizio, comandò che gli fosse condotto innanzi. Filadoro, appena arrivata, si gettò ai piedi di Nardaniello e, versando un torrente di lacrime, non disse altro che: «Che t’ho fatto, cuore di cane? Che t’ho fatto?». Il principe, per la forza della bellezza di Filadoro e della fatazione che lei possedeva, si rammentò del patto d’Amore che aveva fatto con lei e, fattala sedere accanto a sé, raccontò alla madre quanto doveva a questa bella giovane, quanto essa aveva fatto per lui, e della parola che le aveva data e che intendeva mantenere. La madre, che non aveva altro bene che questo figlio, gli disse: «Fa’ quello che ti piace, purché siano rispettati l’onore e la volontà di colei che hai presa per moglie». «Non vi date questa pena–intervenne la sposa–perché io, per dirvi la verità, rimanevo di mala voglia in questo paese. Ma poiché il Cielo me l’ha mandata buona, con vostra licenza me ne voglio tornare alla volta delle Fiandre dove troverò dei boccali molto più grandi di quelli che si usano a Napoli, dove io, credendo di migliorare la mia condizione, stavo per peggiorarla». Il principe, tutto contento, le mise a disposizione vascello ed equipaggio e subito fece vestire da principessa Filadoro. Poi, levate le mense, vennero i suonatori con i loro strumenti e si ballò fino a sera. Ma quando fu l’ora di accendere le torce, ecco che all’improvviso si sentì per le scale un gran tintinnio di campanelli e il principe disse alla madre: «Sarà qualche bella mascherata organizzata dai cavalieri napoletani, per fare onore a questa festa, perché essi sono persone assai compite che, quando occorre, non badano a spese!». Mentre faceva questa considerazione, comparve in mezzo alla sala una brutta figura, che non superava i tre palmi d’altezza ed era grossa più di una botte, la quale si fermò dinanzi al principe e gli disse: «Sappi, Nardaniello, che sono stati i tuoi capricci e il tuo cattivo comportamento a portarti le tante disgrazie che hai sofferto. Io sono l’ombra di quella vecchia alla quale rompesti la pignatta, e per fame sono morta disperata. Ti mandai una bestemmia con cui ti augurai di essere tormentato da un’orca, e le mie preghiere furono esaudite ma, per virtù di cotesta bella fata, sei scampato da quell’inferno. Ma poi avesti una maledizione anche dall’orca: che al primo bacio che ti fosse stato dato, ti scordassi di Filadoro. Ti baciò tua madre e Filadoro ti uscì di mente, ma per l’ingegno di questa fata, ora lei ti è al fianco. Ma ora io ti torno a maledire e, in memoria del danno che mi facesti, voglio che tu debba pensare sempre ai fagioli che mi gettasti, ricordandoti il proverbio veritiero che dice: Chi semina fagioli, gli nascono corna». Ciò detto, si volatilizzò come l’argento vivo, senza lasciare alcuna traccia. Filodoro, vedendo il principe impallidire, lo rincuorò dicendo: «Non temere marito mio, Agli e fravagli è fattura che non quaglia, con questa formula ti libero dalla maledizione!». Terminato il festino, gli sposi andarono a letto e il principe, per confermare la validità del nuovo contratto matrimoniale fatto, lo fece firmare anche dai due suoi attributi. Alla fine, i travagli passati resero più saporiti i piaceri presenti, e si poté verificare che nel mondo succede che: Chi inciampa e non cade avanza nel cammino.