La Gatta Cenerentola
Legge Vincenzo iantorno
La Gatta Cenerentola (Campania)
(da LO CUNTO DE LI CUNTI di Giambattista Basile)
L’invidia, tra le malignità, è quella più soggetta a strozzarsi come un’ernia perché spesso, quando crede di poter vedere annegare un altro, è lei che poi si trova sott’acqua o sbattuta in faccia ad uno scoglio, come successe a certe ragazze invidiose, delle quali voglio raccontarvi la storia. C’era una volta un principe vedovo che aveva una figlia a cui voleva tanto bene da vedere ogni cosa solo attraverso i suoi occhi. Egli aveva anche assunto una sarta molto brava per insegnarle a ricamare, e lei le si era molto affezionata. Purtroppo il padre si sposò un’altra volta, e scelse per moglie una donna rabbiosa, malvagia e indiavolata, che cominciò a odiare la figliastra. Le faceva sempre brutti sguardi, facce astiose e occhiate truci, tanto che la ragazza tremava continuamente per la paura. La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna e diceva: «Oh Dio, ma non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tante affettuosità e tante carezze?». Tante volte ripeté questa cantilena, da mettere un brutto tarlo nella testa della maestra. Questa, accecata dalla cattiveria, finì una volta con il dirle: «Se tu vuoi far succedere quello che la tua testa pazza desidera, possiamo trovare il modo perché io diventi la tua mamma e tu la pupilla degli occhi miei». Stava per continuare a parlare, quando Zezolla, così si chiamava la giovane, la interruppe dicendole con entusiasmo: «Perdonami se ti interrompo ma io lo so che tu mi vuoi bene, perciò non perdere tempo a convincermi, dimmi cosa devo fare e io lo farò». «Allora,–replicò la maestra,–ascoltami bene, apri le orecchie e riuscirai a far succedere quello che desideri. Non appena tuo padre esce, dici alla tua matrigna che, per non consumare il vestito che porti addosso, ne vuoi uno di quelli vecchi che stanno nel cassone grande. Lei, che ti vuol vedere sempre coperta di stracci, aprirà il cassone e ti dirà: «Tieni il coperchio», tu mantienilo ma, quando lei si chinerà per rovistarvi, lascialo cadere di colpo, in modo che il coperchio le rompi il collo. Dopo di ciò, tu sai bene che tuo padre farebbe monete false per accontentarti, perciò, ogni volta che egli ti accarezzerà, pregalo di prendermi per moglie e vedrai che ti accontenterà». Udito il piano, a Zezolla parvero mille anni ogni ora che dovette aspettare prima di poter mettere in atto il consiglio della maestra. Eseguì dunque a puntino il suo consiglio e, morta la matrigna, dopo un po’ di tempo per il lutto, cominciò a chiedere al padre di sposare la sua maestra. Inizialmente il principe la prese a ridere, ma Zezolla, tanto glielo ripeté e tanto insistette, fino a che egli non cedette alla sua richiesta e sposò la Carmosina, questo era il nome della maestra, facendo una grande festa. Nei primi giorni dopo il matrimonio, la nuova matrigna riempì Zezolla di carezze, la fece sedere a tavola nel posto migliore, le diede i migliori bocconi e le fece indossare i vestiti più belli. Però, passato un po’ di tempo, si dimenticò dell’aiuto ricevuto e cominciò a dare importanza a sei figlie sue, che fino ad allora aveva tenute nascoste. E tanto fece con il marito, che questo, affezionatosi alle figliastre, perse l’affezione che aveva per la figlia sua. E Zezolla, a poco a poco, finì che dalla camera con il baldacchino passò in cucina vicino al focolare, dal vestire abiti di seta e d’oro a dover prendere in mano mazze di scopa e mestoli da cucina. Le fu cambiato anche il nome e non non fu più chiamata Zezolla, ma Gatta Cenerentola. Ma un giorno, mentre Zezolla era affacciata a un balcone di casa sua, una colomba si posò sul davanzale e le disse: «Quando desidererai qualche cosa, mandala a chiedere alla colomba delle fate che vive nell’isola di Sardegna, perché lei te lo farà avere subito». Volle il cielo che il principe dovesse andare per affari proprio in Sardegna. Prima di partire domandò alle sei sorellastre: Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che cosa volevano che lui portasse loro al ritorno dal viaggio. Ci fu chi gli chiese un abito di lusso, chi galanterie per i capelli, chi belletti per la faccia, chi giocattoli per passare il tempo e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, quasi per prenderla in giro, disse alla figlia: «E tu, che cosa vorresti?», e lei: «Niente, solo che tu vada a chiedere alla colomba delle fate di mandarmi qualcosa. Però, se ti dimentichi, che tu non possa andare né avanti né indietro». Il principe partì, sbrigò le sue faccende in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e si dimenticò di Zezolla. Però, quando si imbarcò e furono spiegate le vele, la nave non poté uscire dal porto, sembrava che fosse ancora ancorata. Il padrone della nave, dopo molti tentativi, non riuscendo a partire, disperato, andò a dormire per la stanchezza. In sogno gli apparve una fata, che gli disse: «Sai perché non potete uscire dal porto? Perché il principe che viaggia con voi, ha dimenticato la promessa fatta alla figlia, si è ricordato di tutti tranne che del sangue suo». Il capitano, appena sveglio, raccontò il sogno al principe che, mortificato per la sua dimenticanza, andò alla grotta delle fate. Appena giunto, ne uscì fuori una bellissima giovane che, sentita la richiesta di Zezolla, ne lodò la bellezza e la bontà e, dopo aver esortato il principe a tenere sua figlia in gran conto, gli diede una pianta di dattero da far crescere, con una zappetta, un secchiello d’oro e una tovaglietta di seta per poterla curare. Il padre, meravigliato di questo regalo, si accomiatò dalla fata e se ne tornò al suo paese. Arrivato a casa, distribuì alle figliastre le cose che avevano chiesto e, in ultimo, diede alla figlia il dono della fata. Zezolla, che non stava nella pelle per la contentezza, piantò il dattero in un bel vaso e, mattina e sera lo zappettava con la zappetta, lo innaffiava con il secchiello d’oro e lo asciugava con la tovaglietta di seta. Con queste cure, il dattero in quattro giorni divenne alto come una donna, e ne uscì fuori una fata, che domandò alla fanciulla: «Che cosa desideri?». Zezolla rispose che desiderava uscir qualche volta fuori casa, senza che le sorelle lo sapessero. E la fata le disse: «Ogni volta che lo vuoi, accostati alla pianta e dille: Dattero mio dorato, Con la zappetta d’oro t’ho zappato, Con il secchiello d’oro t’ho innaffiato, Con la tovaglietta di seta t’ho asciugato. Spoglia te e vesti me! E quando poi vorrai spogliarti, cambia l’ultimo verso e dici: Spoglia me e vesti te». Quando venne la festa della domenica, le figlie della maestra uscirono tutte truccate, tronfie ed eleganti, tutte con nastri, campanelli e fiocchetti, tutte profumate e odorose di rose e di altre cose. Zezolla, appena si furono allontanate, corse vicino alla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e in men che non si dica fu vestita come una regina e messa in una carrozza con dodici paggi lindi e pinti. Così agghindata andò dove stavano le sorelle, ed esse, pur non riconoscendola, morirono d’invidia per le bellezze di quella elegantissima giovane. La fortuna volle che nello stesso luogo capitasse anche il re, il quale, vedendo la straordinaria bellezza di Zezolla, ne rimase subito affascinato. Allora ordinò al suo servitore più scaltro di informarsi su chi fosse quella bellissima creatura e dove abitava. Il servitore da quel momento cominciò a pedinare la ragazza, ma lei, accortasi delle sue intenzioni, dalla carrozza gettò una manciata di monete d’oro che s’era fatte dare dal dattero con quello scopo. Il servitore, viste le monete, subito si dimenticò di dover seguire la carrozza, e si chinò per riempirsene le tasche. Allora lei, con un salto arrivò a casa, entrò e si spogliò rapidamente nel modo come le aveva detto la fata. Più tardi arrivarono quelle arpie delle sorellastre che, per farla scoppiare di invidia, le descrissero tutte le cose belle che avevano viste. Intanto il servitore, tornato dal re, dovette confessare che per raccogliere le monete, non era riuscito a scoprire quale fosse l’abitazione della ragazza. Il re ne fu arrabbiatissimo e lo rimproverò perché per quattro schifose monete d’oro si era venduto la possibilità di soddisfare il suo desiderio. Comunque, l’avvertì che la prossima volta doveva assolutamente scoprire dove avesse il nido quel bellissimo uccello. Venne un’altra festa e le sorellastre uscirono, tutte eleganti e smorfiose, lasciando la disprezzata Zezolla vicino al focolare. Lei, appena uscite, corse vicino al dattero e, dette le solite parole, ecco che ne uscirono una dozzina di damigelle: chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di colonia, chi col ferro per arricciare i capelli, chi con il rossetto, chi con il pettine, chi con le spille, chi con i vestiti, chi con lacci e collane. La resero bella come il sole e la misero in una carrozza a sei cavalli, accompagnata da staffieri e paggi in livrea. Così agghindata lei tornò nello stesso posto della volta precedente, dove aggiunse nuova meraviglia nel cuore delle sorellastre e altra passione nel petto del re. Anche questa volta, quando se ne ripartì, il servitore le corse dietro, ma lei, per non essere raggiunta, gettò una manciata di perle e brillanti, per cui quell’uomo non poté fare a meno di chinarsi per prenderle, perché non erano cose da lasciar perdere. Cosi Zezolla ebbe il tempo di tornare a casa e di spogliarsi come al solito. A questo punto, quando il servitore tornò dal re tutto mortificato, il re gli disse: «Per l’anima dei morti miei, se tu non mi trovi quella giovane ti riempirò di bastonate e ti darò tanti calci nel sedere quanti sono i peli della tua barba!». Arrivò ancora un’altra domenica e, non appena le sorellastre uscirono, Zezolla tornò dal dattero. Ripetuta la canzone fatata, fu vestita superbamente e fu messa in una carrozza d’oro con tanti servitori attorno, da sembrare una cortigiana arrestata nella via principale della città, attorniata da tanti sbirri. Pure questa volta, dopo aver aggiunto altra invidia nel cuore delle sorellastre, se ne ripartì di corsa per sfuggire al servitore del re. Questo però, per evitare di perderla di vista, si era legato ben bene alla carrozza e Zezolla, vedendo che continuava a starle dietro senza volersi arrendere, incitò il cocchiere ad andare sempre più veloce e la carrozza accelerò con tanta furia, che a lei, nella confusione, cadde una scarpa, che era così bella che non se ne poteva trovare una più preziosa. Il servitore, non potendo raggiungere la carrozza che ormai volava, raccolse la scarpa e la portò al re, raccontandogli l’accaduto. Il re la prese in mano e, rivolto alla scarpa, disse: «Se le fondamenta su cui lei è stata poggiata sono così belle, quanto dovrà esserlo mai la casa della sua persona? O bei sugheri che siete stati attaccati alla lenza d’amore con cui è stata pescata quest’anima, io vi abbraccio e vi stringo, così almeno, se non posso raggiungere la pianta, ne posso odorare le radici! Voi foste appoggi di un piede delicato, e ora siete tagliola d’un cuore addolorato!». Ciò detto, il re chiamò lo scrivano e comandò a un trombettiere di fare circolare un bando che invitasse tutte le donne del paese a partecipare ad una festa, con un banchetto che egli aveva deciso di fare. Nel giorno stabilito, mamma mia quale pranzo e quale chiasso si fece! Da dove arrivarono tante pastiere e casatielli? Da dove tanta carne arrostita e polpette? Da dove tanti maccheroni e ravioli? Da dove uscì tanta roba da poter saziare un intero esercito? Vennero tutte le femmine, nobili e miserabili, ricche e pezzenti, vecchie e giovani, belle e brutte. Una volta finito di mangiare, il re, fatto un brindisi, volle far provare la scarpa, una ad una, a tutte le invitate, per vedere a chi di esse andasse giusta e bene assestata, di modo che egli potesse riconoscere, dalla forma della scarpa, la ragazza che cercava. Ma non trovando alcun piede a cui andasse bene, fu sul punto di disperarsi. Però, imposto un silenzio generale, disse: «Tornate domani a fare nuovamente penitenza con me, ma se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, qualunque essa sia!». A questo punto parlò il padre di Zezolla e disse: «Io ho un’altra figlia, ma sta sempre vicino al focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi». Rispose il re: «Questa deve essere la prima della lista, perché è questo che voglio». Cosi partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e insieme alle figlie di Carmosina arrivò anche Zezolla. Il re, non appena la vide, ebbe l’impressione che fosse quella che cercava, però fece finta di niente. Finito il banchetto, si fece la prova della scarpa. Questa, non appena fu avvicinata al piede di Zezolla, da sola, come il ferro è attratto dalla calamita, si avvicinò al piede di quella meraviglia d’Amore. Il re allora strinse Zezolla tra le sue braccia, e, condottala sotto il suo baldacchino, le mise la corona sul capo, ordinando a tutti di farle inchini e riverenze come alla loro regina. Le sorellastre, livide d’invidia, non potendo reggere allo schianto dei loro cuori, tornarono moge moge a casa della madre, dovendo ammettere, a lor dispetto che: Pazzo è chi si oppone alla volontà delle stelle. Non si può immaginare quanto profondamente tutti furono toccati dalla buona fortuna toccata a Zezolla. Però, per quanto lodarono la generosità del Cielo verso questa giovane, così giudicarono troppo leggero il castigo scontato dalle figlie della matrigna, perché non c’è pena che non meriti la superbia, né disgrazia che non sia giusta per l’invidia. Mentre proseguiva il chiacchiericcio sul racconto di Antonella, il principe Taddeo, messo l’indice della mano destra di traverso alla bocca, fece segno di fare silenzio e tutti zittirono immediatamente come se avessero visto un lupo, o come uno scolaro che, mentre sta facendo chiasso, vede entrare in classe all’improvviso il maestro. A quel punto il principe diede la parola a Ciulla, che cominciò così il suo racconto.