La Pulce

07/09/2024
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Legge Roberto Giannuzzi



La pulce (Campania)

(da LO CUNTO DE LI CUNTI di Giambattista Basile)

 

Sempre le decisioni prese senza riflettere portano a rovine irrimediabili e chi governa senza giudizio, quando rinsavisce se ne pente. Questo successe al re d’Altomonte che, dopo aver fatto un grosso errore, fece una pazzia ancora più grande, mettendo in pericolo gravissimo la figlia e il suo onore. Il re d’Altomonte, essendo riuscito a prendere una pulce che l’aveva morsicato, vista la bella e pasciuta, decise di non ucciderla e di metterla in una caraffa. Ogni giorno la nutriva col sangue del proprio braccio e quella crebbe così tanto che presto dovette toglierla dalla caraffa. Dopo alcuni mesi, essendo diventata grossa quanto un montone castrato, la fece scuoiare e, fattane conciare la pelle, emanò un bando in cui si stabiliva che chiunque avesse saputo dire di quale animale fosse quel cuoio, avrebbe avuto in moglie sua figlia. Una volta pubblicato questo bando, la gente venne a frotte fin dagli estremi del mondo per partecipare a questa gara e tentare di vincerla. Ci fu chi disse ch’era pelle di gatto mammone, chi di lupo mannaro, chi di coccodrillo, e chi d’un animale e chi d’un altro. Ma tutti erano molto lontani dall’indovinare la risposta giusta. A questo quesito venne a tentare di rispondere anche un orco che era la più mostruosa creatura che si fosse mai vista al mondo. Solo a vederlo, anche il giovane più coraggioso del mondo si sarebbe spaventato tanto da farsi venire la febbre, la diarrea, i vermi nella pancia o anche un colpo apoplettico. Quest’orco, appena giunto, dopo aver annusato e toccato la pelle, disse: «Questa pelle è dell’arcifànfano delle pulci!». Il re, visto che aveva colto nel segno, non volendo venir meno alla parola data, fece chiamare la figlia Porziella, che era una fanciulla tanto bella da sembrare fatta di latte e sangue, un bocconcino da mangiarsi con gli occhi, e le disse: «Figlia mia, tu conosci il bando che ho fatto, e sai che non posso venir meno alla promessa. Perché ho dato la mia parola, ora devo mantenerla anche se il cuore mi si schianta. Chi poteva immaginare che il premio sarebbe toccato a un orco? Ma, poiché Non si muove foglia che Dio non voglia, sono certo che questo matrimonio sia stato deciso in cielo, prima che sulla terra. Abbi dunque pazienza, comportati da buona figlia e non opporti a quello che ti sta dicendo tuo padre, perché il cuore mi dice che ti troverai contenta, a volte anche in un vaso da notte di creta grezza, si può trovare un tesoro?». A Porziella, sentendo queste parole, le si oscurarono gli occhi, la faccia impallidì, le cascarono le labbra, le tremarono le gambe, ed il dolore fu tale da farla piangere a singhiozzi. Quando riuscì a trattenere le lacrime, si rivolse al padre gridando: «Che torti ho commesso per meritare questa pena? Quali offese vi ho fatto per essere data nelle mani di questo brutto demonio? Perché devo mettermi volontariamente nella bocca di un rospo? Questo è l’affetto che porti al sangue tuo? Questo è l’amore che dimostri a chi chiamavi pupilla dell’anima tua? O padre crudele, tu certamente sei nato da un animale! Ma non può essere vero perché tutti gli animali sia di mare che di terra amano i loro nati, solo tu vuoi il male di tua figlia! Visto che mi doveva capitare la disgrazia di dover essere accarezzata da una mano di arpia, abbracciata da due zampe d’orso, baciata da due zanne di porco, sarebbe stato meglio se fossi morta in culla!». E avrebbe continuato a lamentarsi disperata, se il re non l’avesse interrotta dicendo: «È inutile che t’arrabbi, non fare smancerie! Chiudi questa bocca! Stai zitta! Non parlare, che sei troppo scostumata, lingua lunga e faccia tosta! Quello che faccio io, è ben fatto! Vorresti insegnare a un padre come deve comportarsi con i figli? Finiscila e ficcati questa lingua nel didietro e non mi far salire il sangue agli occhi, perché, se ti metto le mani addosso, ti strappo tutti i capelli dalla testa e ti faccio cadere tutti i denti. Guarda un po’, questa scoreggia fatta da me vuole fare l’uomo e dettare legge! Quando mai si è visto che una a cui puzza ancora la bocca di latte, si può opporre alla volontà del padre? Presto, dai subito la mano al tuo sposo e vattene a casa sua, perché non ti voglio più vedere. Non voglio avere davanti agli occhi miei, nemmeno per un solo quarto d’ora, questa tua faccia sfrontata e presuntuosa!». La sventurata Porziella, vedendosi trattata in questa maniera, con una faccia da condannato a morte, gli occhi spiritati, la bocca disgustata e l’animo sconsolato, diede la mano all’orco. L’orco se la portò in un bosco dove gli alberi erano così fitti da impedire al sole di poter raggiungere il prato, dove i fiumi, urtando le pietre, si lamentavano di dover scorrere al buio, e dove gli animali selvatici pascolavano sicuri perché lì non andava mai nessuno. In questo luogo spaventoso come l’inferno, c’era la casa dell’orco, le cui mura erano tutte tappezzate con le ossa degli uomini che egli aveva mangiato. Immaginatevi il tremito, lo sbigottimento, lo scoramento e lo spavento della povera Porziella, tanto che a quella vista si sentì svenire. Ma questo fu niente, perché se prima mangiò ceci, dopo dovette mangiare fave secche. Infatti l’orco, appena arrivati, volle andare a caccia e la sera tornò a casa carico di cadaveri di uomini che aveva ucciso e le disse: «Ora, moglie mia, non ti puoi lamentare che io non ti tratto bene. Eccoti una buona provvista di cibo. Prendi, saziati e voglimi bene, perché potrà anche cadere il cielo ma io, puoi essere sicura, non ti farò mai mancare da mangiare». La povera Porziella, nauseata come una donna incinta, girò la faccia dall’altro lato. L’orco se ne accorse ed esclamò: «Darti questo è come dare confetti ai porci! Ma non importa, aspetta fino a domani, perché sono stato invitato a una caccia di cinghiali, così te ne porto un paio, e faremo un bel banchetto di nozze coi parenti per festeggiare meglio il matrimonio». Ciò detto, egli se ne andò nel bosco e, mentre lei stava piagnucolando alla finestra, passò di lì una vecchietta affamata che le chiese qualcosa da mangiare. La povera giovane le rispose: «Oh mia buona donna, Dio solo sa quanto il mio cuore sta soffrendo. Io sto nelle mani di un demonio infernale, che non mi porta a casa altro che pezzi di uomini morti ammazzati, tanto che io non so come mi regga lo stomaco a vedere queste schifezze. La mia è la più triste vita che possa toccare ad un’anima battezzata, eppure son figlia di re, vivevo nell’abbondanza e sono stata cresciuta con le mollichelle!». E dicendo così, si mise a piangere, come una bambina che si vede portar via la merenda. A questo la vecchia, inteneritasi, le rispose: «Pensa alla salute, bella giovane mia! Non consumare la tua bellezza piangendo, perché ora hai trovato la fortuna tua perché io son qui per aiutarti ad ogni costo. Stammi a sentire, io ho sette figli maschi che sono sette gioielli, sette fusti, sette giganti: Mase, Nardo, Cola, Micco, Petrullo, Ascadeo e Ceccone, che hanno più virtù del rosmarino. Mase, basta che metta l’orecchio a terra e riesce a sentire tutto quello che succede, anche a trenta miglia lontano. Nardo, ogni volta che sputa, fa apparire un gran mare di sapone. Cola basta che getti un ferretto a terra, che fa nascere un campo di rasoi affilati. Micco, ogni volta che getta un bastoncino di legno, fa spuntare un bosco fitto fitto. Petrullo, appena schizza a terra una goccia d’acqua, fa sgorgare un fiume terribile. Ascadeo, dove scaglia un sasso, fa sorgere una torre inviolabile. Infine, Ceccone mira così bene con la balestra, che riesce a colpire l’occhio di una gallina da lontano un miglio. Con l’aiuto loro, che sono tutti gentili e avranno compassione di te, voglio tentare di toglierti dalle grinfie dell’orco, perché un bocconcino bello come te non è fatto per la gola di quel brutto demonio». «Non c’è momento migliore di questo–disse Porziella,–perché quel diavolo di mio marito è uscito e starà fuori per tutta la notte, così avremo il tempo di sparire e andare lontano». «Stasera non può essere–replicò la vecchia,–perché abito un po’ lontano. Ma domattina io e i miei figli saremo qui per toglierti da questa penosa situazione». Detto questo partì e Porziella, con il cuore pieno di speranza, dormì per tutta la notte. All’alba, non appena gli uccelli cominciarono a cantare, ecco arrivare la vecchia con i suoi sette figli. Essi si misero Porziella in mezzo e s’avviarono per la strada della città. Ma non avevano fatto mezzo miglio che Mase, messo l’orecchio a terra, gridò: «All’erta! L’orco è tornato a casa, non ha trovato la giovane e sta venendo verso di noi di corsa». Allora Nardo sputò in terra e fece formare un mare di sapone. L’orco, trovando quella saponata, corse a casa, prese un sacco di sugna, e tanto vi si unse i piedi, da riuscire a superare questo primo ostacolo. Mase origliò di nuovo e avvertì: «A te, fratello mio, perché sta per raggiungerci». E Cola gettò un ferro a terra e fece germogliare un campo di rasoi. Ma l’orco, vedendosi sbarrato il cammino, tornò un’altra volta a casa, si vestì di ferro da capo a piedi, e superò anche questo ostacolo. Rimesso nuovamente l’orecchio a terra, Mase gridò: «Su, su! All’armi, alle armi! Fra poco l’orco sarà qua perché sta correndo di gran carriera». E Micco, lesto, con un legnetto fece sorgere un bosco terribilissimo, attraverso il quale era assai difficile passare. Ma quando l’orco arrivò, con un coltellaccio tagliente che portava al fianco, cominciò a far cadere gli alberi, tanto che con quattro o cinque colpi, riuscì ad abbattere tutto il bosco e ad attraversarlo. Mase, che teneva sempre le orecchie vigili, poco dopo tornò a gridare: «Non possiamo stare fermi perché l’orco ha messo le ali e fra poco sarà alle nostre spalle!». Sentito questo, Petrullo bevve un sorso d’acqua da una fontana che la gettava a goccia a goccia da una conchiglia di pietra, lo sputò in terra e subito sgorgò un grosso fiume. Ma l’orco, trovato questo nuovo ostacolo, si spogliò nudo e, con le vesti sul capo, passò a nuoto dall’altra parte. Mase, che metteva sempre l’orecchio a terra, sentì il fruscio delle calcagna dell’orco e disse: «Rischiamo che questa nostra impresa finisca male, perché l’orco sta per arrivare. Dobbiamo trovare un riparo, altrimenti saremo morti!». «Non temete–rispose Ascadeo,–perché ora lo sistemo io questo brutto ceffo». E così dicendo scagliò un sasso e fece apparire una torre, dove subito tutti entrarono, sbarrandone la porta. L’orco, visto che s’erano messi in salvo, corse a casa e, presa una scala da vendemmiatore, se la caricò addosso e, correndo, tornò verso la torre. Mase, come al solito, lo sentì venire e disse: «Ora siamo agli sgoccioli. Solo Ceccone può salvarci, visto che l’orco sta arrivando con grande furia. Ahimè, il cuore mi batte forte per la paura di finire male!». «Come sei cacasotto!–rispose Ceccone–lascia fare a me, e guarda se non lo colpisco come si deve». Ed ecco che, non appena l’orco appoggiò la scala e cominciò ad arrampicarsi, Ceccone, presolo di mira, lo colse giusto in un occhio e lo fece cadere dalla scala, lungo lungo a terra, come un pero. Vistolo tramortito, il ragazzo scese dalla torre e con lo stesso coltellaccio che l’orco portava con se, gli tagliò la testa dal collo come se fosse di cacioricotta. Portatala al re insieme a Porziella, egli fu contentissimo di poter riabbracciare sua figlia, essendosi pentito cento volte d’averla data in sposa a un orco. Per vedere lei felice, in pochi giorni le trovò un bel marito e, per ringraziare la madre e i suoi sette figli di averla salvata da una vita così infelice, li fece diventare ricchi. A Porziella mille volte chiese perdono per averla messa in pericolo per un capriccio, avendo compreso che: Sbaglia chi va cercando uova di lupo e porci con le corna. Immobili come statue tutti stettero a sentire il racconto della pulce e convenirono che il re era stato sconsiderato perché, per uno sciocco divertimento, aveva messo a rischio la vita di sua figlia.